Thursday 18 April 2013

Non fosse altro che per il gusto di andarsene via



Poi succede così. Giri posti, vedi gente, fai cose ma poi torni nel paese dei tuoi nonni, dove hai passato tanto tempo, ed è come se nulla fosse cambiato. Torni ad un’età individuabile tra i 7 e i 17 anni.  Smetti di avere un’identità personale,  per tutti sei “la figlia di” o al massimo “la nipote di”.

Tu sei lì che vorresti darti un tono, dicendo che si, sono stata fuori e poi si, ho fatto questo e quello;  ma invece tutti ci tengono a riesumare ricordi sepolti della tua infanzia, che se erano sepolti un motivo ci sarà. La regola stabilita è che il livello di imbarazzo suscitato dalla storia è direttamente proporzionale al numero di persone presenti al momento del racconto. Tipo l’ottantenne che si ricorda perfettamente del tuo taglio di capelli a 8 anni. Quello che ti faceva sembrare un maschio; quello che tua madre sosteneva essere “così comodo”. Passi una vita a cercare di rimuoverlo, perché se non lo ricordi non esiste, e poi basta un attimo.

Seconda regola: la conoscenza non è necessariamente reciproca. Stuoli di vecchine ti salutano con convinzione, e presto impari a rispondere con altrettanta convinzione, evitando qualsiasi riferimento al nome della persona in questione. Citano tutto il tuo albero genealogico e nei casi più inquietanti si rispondono da sole alle domande poste da loro stesse. Il livello di interesse nei tuoi confronti dipende solo dalle notizie inedite che puoi fornire, su di te o sulla tua famiglia. 

Questo succede quando sei sola. Perché se accompagnata da un parente, il diritto alla parola decade in automatico in nome della struttura gerarchica familiare. L’acquisizione del diritto avviene solo con il matrimonio e si rafforza con la procreazione. E’ solo allora che puoi essere adeguatamente presa in considerazione, in quanto titolare di un  nuovo nucleo familiare. Prima, solo sorridenti silenzi. Se ad accompagnarti è un genitore, il tuo ruolo è annuire e ascoltare le domande su di te rivolte al tuo superiore, esattamente come se tu non ci fossi o come se avessi sette anni. 
Cito un caso esemplare di qualche giorno fa. Cammino con mia madre. Incontriamo una signora piuttosto anziana. Convenevoli. 

- Madre: “si, lei è la più piccola delle mie figlie”
- Signora, lanciandomi un’occhiata veloce, ma rivolgendosi rigorosamente a mia madre:
 “Ah, è ancora da sposare?”
- Madre non  trova niente di meglio da dire che: “eheheh, si”
- Io: eh no, ancora non ho la dote. (no, scherzo, l’ho solo pensato)

La signora esce di scena.
-Io: Mamma, ma chi era?
- Madre: Ah non lo so.

E’ così che succede. Ma in fondo non mi dispiace.

Perché è come vivere in due epoche, la tua e una in cui il tempo sembra essersi fermato. In cui dall’altra parte dell’Europa vedi tua nonna su skype che ti chiede se lì dove ti trovi la pasta è come la nostra.

Perché puoi parlare con chi si stupisce dei tuoi viaggi, ma poi ti racconta del suo grande e lungo viaggio di 60 anni prima che invece era tanto più coraggioso e necessario.

Perché quando ti accorgi che bisogna lottare perché qualcuno ricordi anche solo una piccola parte di te, è rassicurante essere riconosciuti solo per gli stessi occhi di tua madre e di tuo nonno.

Perché quando tutto cambia, è bello che qualcosa resti uguale.


“Un paese ci vuole, non fosse altro che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”.
(C. Pavese, “La luna e i falò” )