Friday 4 October 2013

In un giorno come questo

In un giorno come questo non c’è spazio per l’ironia. Non c’è spazio per i sorrisi sulle assurdità che mi piace descrivere. Ma c’è molto di surreale in quello che leggo e sento stamattina. Di solito non mi piace prendere parte alle cerimonie collettive che si celebrano in un giorno come questo. Non mi piacciono i pianti  esibiti sui social network con la data di scadenza, quelli contraddittori di xenofobi seriali che si nascondono dietro ipocriti principi di carità cristiana e nemmeno quelli ingessati delle istituzioni. Non mi piacciono gli analisti dell’ultim’ora che trattano un giorno come questo come una chiacchiera da bar. Non mi piace intervenire in un giorno come questo, perchè non c’è nessuna opinione da dare. Perchè un giorno come questo mi lascia inerme. E come tutte le cose che mi toccano profondamente, preferisco che rimangano nel silenzio, perchè il contatto con la realtà  non le renda banali.
Ma oggi non riesco a farlo, davanti a questa pagina:


Sono davvero stufa di questo qualunquismo retorico e ignorante. Mi stupisco sempre di come la demagogia spicciola a cui ci hanno abituato in questo paese ancora faccia proseliti; c’è gente convinta che esista un’equazione immigrato= sinistra. Per cui chi deve fare quello di sinistra si sente in dovere di dire la sua con un paio di ovvietà di circostanza anche se non ha nemmeno idea di dove si trovi Tripoli. Chi deve fare quello di destra si sente altrettanto in dovere di dire banalità pseudo-patriottiche, eventualmente rivedute e corrette per i principi di carità cristiana di cui sopra, ma che in buona sostanza si riassumono in questo commento (di un mio contatto fb):

“vi preoccupate e commiserate stranieri e non sapete quello che succede in casa nostra, in Campania, dove ci avvelenano tutti”.

Questa è l’espressione massima non solo di una ridicola sommarietà di giudizio, ma anche di una profonda ignoranza. Non solo di persone che si permettono di invitare a classificare il dolore, ma di chi non sa di essere coinvolto nella stessa Storia. Come se conoscere quello che siamo debba farci dimenticare da dove veniamo. 
La storia degli italiani migranti è nota e doverla utilizzare ogni volta come risposta a posizioni ridicole e ostinate mi sembra quasi offensivo per la memoria di chi quelle storie le ha vissute e anche per chi, come me, le ha solo sfiorate attraverso i racconti familiari.
Mio nonno ha vissuto in Brasile dopo la guerra; il suo viaggio in nave è durato un mese. È partito e negli occhi aveva solo il piccolo paese dove aveva sempre vissuto. È arrivato e ha lucidato scarpe. È tornato, 20 anni dopo, e a volte si riusciva a sentire ancora un’inflessione portoghese nella sua voce. In mezzo, immagini di povertà e discriminazione, almeno quelle che poteva raccontare a me che ero ancora bambina.
Prima o poi vorrei poter ricostruire i tasselli di questa storia, simile a tante altre.
Spero che oggi tornino alla mente di tutti quelli che ne hanno conosciuto una, per ricordare che quello che accade sotto i nostri occhi ci riguarda perchè è la nostra memoria. È sempre il nostro mare quello che scrive di morti senza volto, ed è il nostro paese quello che distribuisce destini precari a chi rimane.


Mi fermo qui, e perdonate se anche io ho peccato di ovvietà.

 Perchè in un giorno come questo, le Storie più grandi di noi è meglio lasciarle senza parole.



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